Antonio De Lisa- La Cina fuori dal passato

Dopo un avventuroso viaggio su un bimotore da Hong Kong siamo atterrati a Canton (Guangzhou), una delle capitali, con Pechino e Shangai, della nuova Cina. Canton non è trendy come la città più “americana” della Cina, Shangai, dove ai tavoli dei megaristoranti (il “Red snapper” può ospitare 3.000 persone) i ravioli al vapore ripieni di brodo di carne e polpa di granchio (“jiao zi”) vengono serviti da camerieri su pattini a rotelle, ma è sempre un grande laboratorio del paese dell’estremo oriente che ha osato sfidare il mondo occidentale sul suo stesso terreno, quello della competizione commerciale.

L’ex colonia britannica è la città del “non luogo” metropolitano, così come l’ha definito un sociologo francese. Il più evidente è lo shopping center. Enormi shopping center sono collegati l’uno all’altro da strade pedonali sopraelevate. E’ come una rete di labirinti. Ma in questo “non luogo” persiste una credenza antica, geomantica e superstiziosa, il “feng shui”, il buon auspicio, che ingarbuglia con le sue regole capricciose la rete dei labirinti urbani. Se un terreno risulta privo di buon auspicio non vi costruiscono sopra, col risultato di intasare le zone di buon auspicio elevando grattacieli giganteschi.

L’amico orientale ci fa da Cicerone, esaudendo divertito le mie richieste: la televisione, l’università, le biblioteche, i luoghi di ritrovo dei giovani.

La Cina inaugurò la sua prima stazione televisiva solo nel 1958, e fino al 1979, in tutto il paese col suo miliardo di abitanti, c’erano meno di cinque milioni di apparecchi. Tuttavia oggi i cinesi stanno diventando fanatici della televisione quanto gli americani e i giapponesi, per lo meno nelle zone urbane dove si concentra il maggior numero di televisori.
Quando una stazione di Pechino mandò in onda il suo primo programma americano, una serie di telefilm di fantascienza che ha come protagonista un uomo che sa nuotare come un pesce, “The Man from Atlantis”, il numero delle persone che il sabato sera rimase in casa per seguire il programma fu tale che i cinema, di solito superaffollati, rimasero vuoti e il numero dei crimini a Pechino scemò di colpo, come mi racconta un giornalista dello studio televisivo.

Le autorità politiche del paese avevano scelto un programma molto strano, per non dire inverosimile, come prima serie regolare di telefilm stranieri. Lo sceneggiato, privo di qualsivoglia messaggio sociale, mostrava gli occidentali, in questo caso americani, in ambientazioni ricche, seducenti e avventurose, niente che scoraggiasse l’invidia per il modo di vivere di quei paesi. La ragione, mi spiega il giornalista, risiedeva nel fatto che la stazione televisiva governativa disponeva di un bilancio ristretto (trasmetteva una quantità minima di pubblicità) e “The Man from Atlantis” era la serie più economica che la Cina avesse potuto comperare ad Hollywood.
E’ la volta di una biblioteca. Nello schedario del dipartimento di storia cerco la scheda di Trotsky, così, per curiosità, ma la scheda rimanda a Lev Bronstein, il suo nome d’origine. Vado a cercare Bronstein e la scheda rimanda a Trotsky. In seguito un laureando mi dice che lo stratagemma è il residuo di un recente passato, in quanto le autorità politiche cinesi erano fino a non molto tempo fa ancora pieni d’ammirazione per Stalin e consideravano Trotsky un apostata. Quelle schede sono semplicemente non aggiornate, perché ora anche Stalin è scomparso dai punti di riferimento. Fuori campeggiano grandi cartelloni pubblicitari di marche giapponesi e dentro le carte disputano ancora dell’ortodossia di Trotsky, ma sono solo carte; la vera Cina ha fatto un passo in avanti e nessuno può prevedere quello che ci riserverà in un immediato futuro, anche se oggi ha ricevuto un duro colpo dal crollo delle borse.

Il “must” della Honk Kong di oggi è il Felix, all’ultimo piano del grandioso Peninsula Hotel (progettato da Philippe Starck), il bar-ristorante più “cool” della città., mentre nella Cuaseway Bay si espongono le creazioni ispirate all’Oriente della stilista Vivienne Tam, cinese d’origine ma trapiantata a New York. Anche l’arte contemporanea, che non ha mai avuto un grande mercato a Hong Kong, mostra o mostrava una certa controtendenza, con le gallerie dei giovani artisti di Para/Site e Laspace. Ma dietro l’ottimismo ufficiale e le ufficiose preoccupazioni emerge il volto inquieto della Cina d’oggi, a diciassette anni circa dal mio viaggio fatto nell’agosto 1986. Nel cinema di Wong Kar-wai e John Woo si manifesta la perdita d’identità di questo paese, segnato da “non luoghi” metropolitani, da scenari iperrealisti e da personaggi-fantasma “che attraversano inquieti megalopoli punteggiate da luci al neon” (Gianni Canova). Tuttavia all’ora di pranzo i manager e i dirigenti di un certo livello si tolgono la cravatta e vanno in palestra a praticare il “kung fu”, più una filosofia di vita che una lotta.

Poi, questo gioco di carte può stupire soltanto chi non sa che l’Oriente, da quello vicino a noi, il Medio Oriente, a quello più lontano, viveva e ancora vive – sia pure in maniera diversa – in un perenne stato di scissione mentale: da un lato si avverte l’esigenza di salvaguardare quello che si è acquisito con tanti sacrifici, un’identità nazionale e politica (Cina e Vietnam), talvolta con caratteristiche etniche e religiose (mondo islamico, India), dall’altra si guarda con ammirazione a Occidente. Certi fenomeni sono normali, anche se possono apparire curiosi; questo mi è capitato di vederlo in Tunisia come in Turchia, in India come in Tibet e in Cina.



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