Antonio De Lisa- Jean Fautrier, l’artista come demiurgo
Jean Fautrier (1898-1964), insieme a Jean Dubuffet (1901-1985), ha segnato una tappa importante nella storia del materismo nell’arte contemporanea. La produzione è imponente, da una “Nature morte” del 1925 a “L’asparagus”, del 1963, passando per “Mon pays”, del 1955 e altri capisaldi della produzione di Fautrier, come “Composition”, del 1960. La parte più rilevante è quella inscritta nel primo decennio del Secondo dopoguerra, in cui le sue opere, insieme con quelle di Dubuffet, giocano un ruolo essenziale nel rinnovamento delle arti in Europa, segnando la via informale in parallelo alle esperienze italiane, spagnole e tedesche. Opere altamente materiche. Il curatore ha parlato dell’opera dell’artista come demiurgo. Si riferisce, insieme, ai procedimenti tecnici e all’ispirazione poetica e formale che ne guida il tracciato. L’artista francese, infatti, delineava la prima immagine su un cartone montato su tela con il pennello e gli inchiostri. Si dedicava ad applicare l’impasto sul disegno tracciato; quindi aggiungeva polveri colorate e altri strati d’impasto. In questa fase spugnava e impastava la materia come si fa col pane, in un processo di manipolazione altamente simbolico. Quindi spargeva altre polveri sull’ultimo strato facendo in modo che in alcuni punti si fissassero all’impasto fresco e oleoso, in altri punti le incorporava con il pennello. Nella veste di “plasticatore” riprendeva poi il disegno rimasto coperto dalla pasta e con uno strumento metallico, molto spesso un coltellaccio, tracciava sulla pasta solchi sottili che si aggiungevano ai tratti del disegno. Si è parlato di “ambiguità”, o “duplicità”, a proposito dell’opera di Fautrier, “snodatasi via via attraverso l’adozione di forme robuste e coriacee ma anche di apparizioni fantasmatiche come ectoplasmi del primo periodo, di morte ma anche di vita nel ciclo degli “Otages” (il grumo di materia sia come carne da obitorio, sia come possibile feto), di deiezione ma anche di décor negli anni Cinquanta, quando la materia reietta che gli è congeniale si impreziosisce di tinte suadenti e raffinate, nella migliore tradizione della “finesse” transalpina, infine nella compresenza di materia e segno che caratterizza l’ultima produzione” (Roberto Pasini). Questa duplicità in fondo fa parte della vita pulsante della materia, dove vita e morte si giocano le parti.
Nella storia del materismo parte non secondaria hanno le opere degli informali italiani, a partire da Giorgio Morandi, definito il “traghettatore”, per arrivare a Burri e Fontana e finalmente a Leoncillo. “Quei grumi, quei bioccoli materici, nel caso di Leoncillo si estendono, si protendono, assumono forza e spessore, con l’aiuto di una sostanza fisicalmente consistente quale la ceramica, che però appartiene all’ambito della terra morbida e plastica, ben lontana, insomma, dall’ambito delle pietre dure. E sempre al seguito di questo destino fatale di dare tangibilità alle scelte di Fautrier, Leoncillo giunge a cuocere davvero le sue paste, come richiede la tecnologia specifica dell’arte ceramica” (Barilli). Bisognerebbe citare in quest’ambito anche Ennio Morlotti e Mattia Moreni.
Ci sarebbe un lungo discorso da fare sulle differenze e i contrasti tra pittura “informale” e pittura “astratta”, che non coincidono affatto. Si pensi per esempio che uno dei filoni più importanti dell’arte contemporanea è quella definita “polimaterica” e che ha le sue scaturigini nel futurismo di Balla e Boccioni, per arrivare ai giorni nostri. L’”informale”è un momento di passaggio di questo tragitto, quello materico, che non nega programmaticamente la figurazione ma la reinventa e la reinterpreta in senso alchimistico e demiurgico. Quello che conta per i pittori informali è soprattutto è la resa della morbida materia plastica.
Antonio De Lisa
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