
Clemente è un artista molto coccolato dal mercato. Ha conquistato il mondo con la sua pittura impalpabile, evanescente, dove fluttuano senza peso apparente – come nei processi dell’inconscio – teste, figure, simboli, brani di scrittura. E’ un vocabolario visivo inconfondibile, in cui si stratificano i segni di culture lontanissime e all’apparenza inconciliabili: il barocco napoletano, la tradizione orientale, ma anche la pop art, la cultura del cinema e della televisione. Fa parte del gruppo dei cinque artisti che vanno sotto l’etichetta di Transavanguardia. Si possono considerare parallele, infatti, le ricerche postconcettuali di artisti come Clemente, appunto, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, che “muovono dal clima comune del concettuale evolvendolo nel senso di ridare calore e emozione ai suoi strumenti (alle foto, alle tracce grafiche), passando per una fase di stramberie e di eccentricità assai stimolanti” (R. Barilli). Agli eccessi di un’arte troppo estesa, fredda, concettuale si ritiene di dover reagire con eccessi di manualità e di calda aggressione cromatica, come nelle opere di Sandro Chia ed Enzo Cucchi. Un parallelo americano è nel tipo di ricerca definita come “bad painting” o “dumb art”, dato il carattere provocante di sciatteria e sbadatezza che i suoi cultori ostentano. Clemente fa della sciatteria del gesto pittorico una specie di spia grafica. Le figure sono essenziali nel loro gigantismo, il tratto che le contiene è l’unica articolazione possibile, come in “My World War III”, del 1983, una composizione di 3 meri e 48 x 4 metri e 34 o come in “Sense”, del 1984, di 3 metri e 65 per 6 metri e 75, praticamente un manifesto stradale.

“Transavanguardia significa assumere una posizione nomade che non rispetta nessun impegno definitivo, che non ha alcuna etica privilegiata se non quella di seguire i dettami di una temperatura mentale e materiale sincronica all’istantaneità dell’opera. Transavanguardia significa apertura verso l’intenzionale scacco del logocentrismo della cultura occidentale, verso un pragmatismo che restituisce spazio all’istinto dell’opera”. Di queste parole di Bonito Oliva, Clemente è un buon rappresentante, col suo nomadismo tra Madras, Sud India, New York e deserto messicano. Fino all’illustrazione da cartolina. Si vedano, per esempio, i cinque pezzi del ’93: “Earth”, “Woman”, “Sky”, Fountain”, “Skul” e “Crown” del 98. La sequenza più caratteristica è data dalla sequenza di quattro opere elaborate con “mixed media on jeans fabric”, tecnica mista su tela da jeans. Sono tutti dei “Self Portrait” con titoli diversi, figure scontornate da confini poligonali e lobati che si concludono in un grande “Birthday Self Protrait” in cui la figura dell’autoritratto snocciola dal naso numeri che intercorrono tra il 1952 (anno di nascita dell’artita) e oggi

Molto “Giovane Artista Anni Ottanta”, la figura artistica di Clemente è riuscita a ritargliarsi uno spazio operativo importante sulla scena internazionale. Le opere dell’artista napoletano svelano una miscela di candore, misticismo e narcisismo che è difficile da dipanare. Troviamo Budda e la memoria degli amorini da affresco pompeiano, tutto intorno all’unica figura che Clemente abbia mai dipinto per intero, se stesso.“Transavanguardia“ scriveva Jean Clair su un numero della rivista“Flash Art” dell’82 “è un fenomeno dettato da una situazione economica florida. Questo è tutto, e penso che di questa avanguardia non resterà praticamente niente, contrariamente alle avanguardie storiche, le quali si sono definite in rapporto a una situazione politica, un impegno e a delle convulsioni rivoluzionarie”. Tornando al nostro argomento, ci sarebbe da chiedersi, cosa lascerà questo gigantesco autoritratto con Budda e amorino di Francesco Clemente?

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