Antonio De Lisa (Adel)- Osservazioni sull’arte contemporanea

Una tendenza che ha preso piede in Europa: New Genre Public Art

Sentivo parlare sempre più spesso nei siti d’arte europei di New Genre Public Art. Dalle foto non riuscivo bene a capite di cosa si trattasse. Spulciando un po’ la rete me ne sono fatta un’idea. Wikipedia ne fornisce una sintesi. Per New Genre Public Art si intende la nuova declinazione dell’arte pubblica. Differisce dall’arte pubblica convenzionale per il fatto che mette l’accento sul processo piuttosto che sull’oggetto. Scopo della New Genre Public Art non è più la produzione di un oggetto artistico, ma l’innescare processi relazionali tra artista e pubblico. Nell’ambito della new genre public art, affermatasi a partire dagli anni Ottanta, il concetto di monumento appare definitivamente superato in favore di interventi effimeri e provvisori realizzati non più semplicemente nel pubblico ma con il pubblico, spesso direttamente coinvolto nelle operazioni. Si tratta di lavori in cui l’artista da produttore autonomo ed originale si trasforma in colui o colei che innesca un evento, senza necessariamente controllarne gli esiti.Nella foto Il Bataille Monument, a Kassel di Thomas Hirshhorn. In Bataille Monument di Thomas Hirschhorn realizzato per Documenta 11 del 2002 l’artista svizzero si reca a vivere in una delle periferie abitate dagli immigrati turchi di Kassel, creando con loro un modello espositivo alternativo a quello offerto normalmente dal’istituzione tedesca: vengono costruite tre baracche in legno ospitanti rispettivamente uno studio televisivo, una biblioteca di filosofia con videoteca pensata attorno a temi legati alla produzione di George Bataille e infine una mostra dedicata all’intellettuale francese. Lì vicino viene costruito un bar gestito da una famiglia del posto e per accedere all’opera ci si deve servire di un servizio taxi organizzato dai turchi del sobborgo di Nordstadt. Il lavoro collaborativo iniziato da Hirschhorn si situa nel punto medio di uno spazio di relazione creato tra una comunità realmente esistente di immigrati in condizioni di povertà e il mondo dell’arte fatto di persone appartenenti ad un ceto sociale sicuramente più elevato. Da questa posizione non si assoggetta il pubblico, di entrambe le parti, ad una condotta prevista, né ci si accontenta di un interstizio nel quale dare visibilità ad un’idea precostituita di comunità, ma si espongono l’un l’altro le due collettività appartenenti in quel momento allo stesso urbano di Kassel, sfruttando i possibili punti di contatto presenti nell’opera di Bataille.La cosa interessante è che l’artista interviene direttamente sul tessuto urbano, anche se con istallazioni effimere e provvisorie.


Arte contemporanea e riqualificazione urbana

Ho partecipato recentemente a un concorso di arte contemporanea, Prisma Art Prize, a Roma e ho scoperto che i lavori saranno presentati nel febbraio 2021 nell’Atelier Montez. Questo mi ha incuriosito e sono andato a vedere di cosa si tratta. Lçggo nella presentazione dell’Atelier:

“Made in Rome Art Productions ATELIER MONTEZ è una fabbrica dell’arte contemporanea nata nel 2012 dalla riqualificazione di un relitto urbano fra la Riserva Naturale dell’Aniene e la periferia storica di Roma, Pietralata, realizzata su progetto dell’Artista Gio Montez, Giacomo Capogrossi e dell’Architetto Francesco Perri”.

E’ cosa molto interessante e sollecita a una più ampia considerazione sui rapporti tra “relitti urbani” e arti contemporanee. Ovviamente attendo di vedere con i miei occhi di cosa si tratta, quello che posso dire subito è il risultato di grandi discussioni con i miei amici architetti e amministratori comunali sulla possibilità di intervenire con arte musica e teatro in spazi urbani dismessi.

Gli architetti sarebbero dispostissimi, un po’ meno gli amministratori comunali, cui sarebbe affidato il compito di reperire spazi e fabbricati e attuarne la riqualificazione. In questi casi c’è sempre qualcuno che fa da traino, qualcuno o qualche associazione, che dovrebbe accollarsi di un compito veramente gravoso.

Le idee comunque ci sono in giro per l’Italia e per l’Europa. Cercherò di guardarmi un po’ in giro.

In base a un saggio di Valeria Inguaggiato (Arte nei processi di riqualificazione urbana- Da “Fare città, chiamarla arte. Politiche ed esperienze di integrazione tra arte e territorio”, dissertazione finale del Dottorato di Ricerca in Pianificazione Urbana, Territoriale e Ambientale – XXI Ciclo, Politecnico di Milano) scopro che le esperienze più interessanti sono le seguenti:

Neuruppin e Münzviertel che l’autrice ha analizzato come veri e propri casi studio nei capitoli due e tre, ritenendoli significativi soprattutto per la loro capacità di mettere a fuoco due modalità molto diverse di relazione tra territorio, arte e politiche urbane;
il progetto “Sproutbau” dell’Autonomes Architecktur Atelier di Brema, che ho selezionato perché mostra la capacità anche di interventi “brevi” di sedimentare reti di relazione tra attori e territori;
“Parkfiction” nome del progetto e dell’associazione della città di Amburgo che lo ha promosso, nel quale emerge in particolare il tema della “professione” ovvero dell’evolversi della professione di artista verso quella anche di “tecnico”, ovvero esperto di politiche urbane che dialoga con gli abitanti e l’amministrazione in un processo di trasformazione urbana;
la Chocolate Factory di Londra, che costituisce un esempio di “hub della creatività”, riconosciuto e approdato anche in altri contesti;
la città di Torino ed in particolare alcuni progetti e politiche realizzate negli ultimi anni, che mostrano un processo in atto in diverse città europee di rilancio e riconversione strategica della città a partire dalla cultura, la creatività e l’arte;
la città di Faenza, esempio di “distretto creativo evoluto”, nel quale anche la “produzione” e il rapporto con il territorio e non solo la”fruizione” d’arte è considerata un elemento distintivo;
il progetto “Precare” dell’associazione Citymine(d) di Bruxelles, che mostra come il riuso temporaneo regolamentato di edifici attraverso attività artistico – culturali è stato capace di essere un alternativa al problema dell’occupazione abusiva e della sicurezza;
il progetto “Corviale” realizzato a Roma, nel quale l’arte ha lavorato sull’identità e sull’immagine del quartiere;
ed infine il progetto “For Sale” realizzato nella città di Dresda in Germania, nel quale è visibile quel processo di “adozione” dell’arte e dell’artista di tematiche sociali e civili che caratterizza gli artisti più vicini a quella che è stata definita “New Genre Public Art”.


Le etichette dell’arte contemporanea

Ho dato a un amico che gestisce un negozio di belle arti un quadro da esporre. Dopo un po’ di tempo sono tornato per prendere dei colori a olio e gli ho chiesto, quasi per caso, che effetto avesse avuto la mia opera in vetrina, che rappresenta un nudo femminile. Mi ha risposto che ha ricevuto diversi commenti, alcuni negativi, altri positivi. Fra i positivi un cliente ha definito quest’opera “Transavanguardia”.Forse ho capito cosa voleva dire quel quel cliente: un’opera figurativa, ma non banalmente realistica, con un accenno di stile esibito cromaticamente. Riflettendo, sono giunto alla conclusione che forse oggi si definisce “Transavanguardia” tutto quello che si inscrive originalmente nella dimensione figurativa, con il recupero della pittura a olio, senza concettualismi e manierismi minimal.La mostra che ha consacrato la Transavanguardia è stata tenuta a battesimo da Achille Bonito Oliva nel 1982. 40 anni fa. L’ho anche vista e non non nego che mi sia piaciuta, ma non avrei mai immaginato che potesse dare il nome a un’intera concezione dell’arte. In realtà la Transavanguardia ha sostituito la Pop Art come corrente pittorica esplicitamente rappresentativa. La prima usa i colori in senso classico (Chia, Paladino, Clemente), la seconda in maniera squillante. Tutte e due testimoniano un’arte del vedere che va al di là (“trans”) delle avanguardie storiche senza rinnegarle. Se vediamo le cose da questo punto di vista, non mi dispiace l’etichetta del cliente di quel negozio. Secondo me l’errore di certe avanguardie, artistiche e musicali, è stato quello di aver negato del tutto la comunicazione. A me però la comunicazione interessa, perché dovrei mettermi un gradino sopra la gente interessata, consapevole e impegnata nella vita? Meglio stare in mezzo.


Perché si distruggono le statue? Che cosa rappresentano le statue?

Chi ha fatto studi di storia dell’arte sa che dopo la pittura viene la scultura (e infine l’architettura): questa è la gerarchia del prestigio nell’arte occidentale (euro-americana). E scultura fino a un secolo e mezzo fa ha significato statuaria, nella triplice veste di marmo, bronzo e terracotta.In questi giorni si buttano giù o si dissacrano proprio le statue. Un significato ci deve essere, al di là della contingenza socio-politica. Che cosa rappresentava la statuaria? Ci vorrebbe un Hegel per trovare una formula sintetica; si potrebbe forse dire l’eroismo archetipico e fondatore di civiltà. Le statue hanno un qualcosa di totemico, si situano nel centro delle città italiane, nelle piazze importanti, nei crocicchi: rappresentano una segnaletica di valori congelati in materie indistruttibili. Questo siamo noi, questo rappresentiamo noi. E andava benissimo per società stabili: si scolpiva nel marmo, dai Greci a Michelangelo. Classicità significa statuaria apollinea. Nell’Ottocento però le cose cambiano. Le statue sono rappresentazioni consapevoli del nazionalismo identitario. Non dicono più: questo è l’uomo, nella sua grandezza e bellezza. Dicono: questo rappresenta noi, ben diversi dagli altri, che stanno lì fuori, fuori dai confini. In una società come quella attuale in cui si mette di nuovo in risalto la dialettica lacerante “Noi-gli altri”, quel bronzo rappresenta la chiusura della storia.Questo non ci porta a dire che è giusto abbatterle; al contrario, ci porta a dire che il bisogno di arte e di rappresentazione simbolica, inevase nelle nostre società, si sfoga con quella che esalta i simboli del passato. E’ un paradosso. Forse sì.

ST PAUL, MN – JUNE 10: A statue of Christopher Columbus, which was toppled to the ground by protesters, is loaded onto a truck on the grounds of the State Capitol on June 10, 2020 in St Paul, Minnesota. The protest was led by Mike Forcia, a member of the Bad River Band of Lake Superior Chippewa, who called the statue a symbol of genocide. Protesters also called for justice for George Floyd. (Photo by Stephen Maturen/Getty Images)

I due mondi paralleli dell’Arte contemporanea

Se provate a guardarvi un po’ in giro nel mondo dell’arte contemporanea vi accorgerete che esistono due mondi. Il primo è quello delle gallerie di élite e dei curatori super-fighi di mostre super-osannate , il secondo è quello della sottopancia famelica e qualche volte un po’ cialtrona degli outsiders, dei non inseriti, di chi guarda dalla finestra.Nel primo mondo si espongono opere del tardo minimalismo, del manierismo più defatigato, di un perbenismo artistico molo molto blasè. Si tratta di opere che mostrano una pietruzza sotto una parete completamente bianca, una sedia senza una gamba appoggiata allo spigolo di una porta, del solito neon con la scritta intelligentissima, del video (girato malissimo) in cui si mostra qualcuno che esce dal mare.Nel secondo mondo regna la neo-figurazione più corriva, si espongono tele con l’illusione di creare l’illusione della realtà. Roba che sarebbe stata fuori moda già negli anni Ottanta dell’Ottocento. Ci sono le figurine, mancano le idee. Spesso, in molti casi, la ricerca anche astratta sfocia nella decorazione. In questi mondo gli artisti anelano alla comparsata in una collettiva qualsiasi, nella speranza che un gallerista obeso e di bocca buona possa comprare qualche tela ed esporla. E’ un mondo di starlette patetiche, magari anche col codino e la camicetta hawaiana. Come a dire: “Guardatemi, sono un artista”. Ci sono diverse eccezioni, ma come escrezioni di un paesaggio boschivo passabilmente monotono.Questo francamene mette un po’ di tristezza. Si gioca – con la compiacenza di molti critici- sulla falsariga di false polemiche fra rappresentazione e concetto. La domanda è: ci sarà una via di uscita? Vedremo.



Categories: A20.04- Note critiche - Critical notes

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