Il problema della materia in arte coincide con la stessa storia tecnica dell’arte. L’attenzione a questo aspetto, però, è stato per secoli nascosto nei laboratori e nei trattati di pittura; la superficie del quadro doveva mantenere il suo aspetto di illusione tridimensionale su una superficie bidimensionale. Da un certo punto in poi gli artisti hanno sentito il bisogno di renderla protagonista del processo artistico.
In questa sede indaghiamo il rapporto fra materismo e concettualismo nell’arte contemporanea. Per arte contemporanea in senso stretto intendiamo l’arte che va dal secondo dopoguerra del Novecento a oggi e che investe fenomeni come l’arte materica e informale, molte delle declinazioni attuali del video, della performance, della Land Art, dell’Arte povera, della Body Art, della Narrative Art, dell’arte pubblica e relazionale.
La negazione del segno. L’arte diversa di Michel Tapié
Nel 1952, Michel Tapié (1909-1987), critico d’arte francese, in un saggio intitolato Un’arte diversa (Un art autre) cercò di descrivere quella tendenza dei pittori europei del secondo dopoguerra che riconobbe come una radicale rottura con tutte le tradizionali nozioni di ordine e composizione. In tale circostanza, egli coniò il termine Informale e utilizzò la definizione di arte informale per riferirsi alle “preoccupazioni” antigeometriche, antinaturalistiche e non-figurative di questi artisti, sottolineando la loro inclinazione alla spontaneità, all’irrazionale e la loro volontà di “perdere la forma”. Gillo Dorfles (1910-2018), esperto italiano di arte contemporanea, preferì indicare con l’etichetta di Informale «quelle forme di astrattismo dove, non solo manchi ogni volontà e ogni tentativo di figurazione ma manchi anche ogni volontà segnica e semantica».
Le performances del Gruppo Gutaj in Giappone
Nel 1959 emerge in Giappone il Gruppo Gutaj. Il termine significa “volontà di concretizzare la spiritualità della materia”. Nel corso di performances, al limite tra teatro e pittura, gettavano secchi di colore su enormi tele ondeggiando da una altalena, dipingevano muri con le mani, sfondavano tele con gesti delle arti marziali Gli occidentali erano attratti da alcuni elementi della filosofia orientale quali:
-La convinzione che il vuoto, sede del tutto, sia più importante del pieno;
-Che qualsiasi atto concentrato, frutto di una lunga disciplina, sia una via verso la salvezza;
-Che accogliere il caso piuttosto che forzare il corso delle cose sia una regola di vita rasserenante.
L’Art brut francese
Jean Fautrier (1898-1964), insieme a Jean Dubuffet (1901-1985), ha segnato una tappa importante nella storia del materismo nell’arte contemporanea. La produzione è imponente, da una “Nature morte” del 1925 a “L’asparagus”, del 1963, passando per “Mon pays”, del 1955 e altri capisaldi della produzione di Fautrier, come “Composition”, del 1960. La parte più rilevante è quella inscritta nel primo decennio del Secondo dopoguerra, in cui le sue opere, insieme con quelle di Dubuffet, giocano un ruolo essenziale nel rinnovamento delle arti in Europa, segnando la via informale in parallelo alle esperienze italiane, spagnole e tedesche. Opere altamente materiche.
Il curatore ha parlato dell’opera dell’artista come demiurgo. Si riferisce, insieme, ai procedimenti tecnici e all’ispirazione poetica e formale che ne guida il tracciato. L’artista francese, infatti, delineava la prima immagine su un cartone montato su tela con il pennello e gli inchiostri. Si dedicava ad applicare l’impasto sul disegno tracciato; quindi aggiungeva polveri colorate e altri strati d’impasto. In questa fase spugnava e impastava la materia come si fa col pane, in un processo di manipolazione altamente simbolico. Quindi spargeva altre polveri sull’ultimo strato facendo in modo che in alcuni punti si fissassero all’impasto fresco e oleoso, in altri punti le incorporava con il pennello. Nella veste di “plasticatore” riprendeva poi il disegno rimasto coperto dalla pasta e con uno strumento metallico, molto spesso un coltellaccio, tracciava sulla pasta solchi sottili che si aggiungevano ai tratti del disegno.
Si è parlato di “ambiguità”, o “duplicità”, a proposito dell’opera di Fautrier, “snodatasi via via attraverso l’adozione di forme robuste e coriacee ma anche di apparizioni fantasmatiche come ectoplasmi del primo periodo, di morte ma anche di vita nel ciclo degli “Otages” (il grumo di materia sia come carne da obitorio, sia come possibile feto), di deiezione ma anche di décor negli anni Cinquanta, quando la materia reietta che gli è congeniale si impreziosisce di tinte suadenti e raffinate, nella migliore tradizione della “finesse” transalpina, infine nella compresenza di materia e segno che caratterizza l’ultima produzione” (Roberto Pasini). Questa duplicità in fondo fa parte della vita pulsante della materia, dove vita e morte si giocano le parti.
Nella storia del materismo parte non secondaria hanno le opere degli informali italiani, a partire da Giorgio Morandi, definito il “traghettatore”, per arrivare a Burri e Fontana e finalmente a Leoncillo. “Quei grumi, quei bioccoli materici, nel caso di Leoncillo si estendono, si protendono, assumono forza e spessore, con l’aiuto di una sostanza fisicalmente consistente quale la ceramica, che però appartiene all’ambito della terra morbida e plastica, ben lontana, insomma, dall’ambito delle pietre dure. E sempre al seguito di questo destino fatale di dare tangibilità alle scelte di Fautrier, Leoncillo giunge a cuocere davvero le sue paste, come richiede la tecnologia specifica dell’arte ceramica” (Barilli). Bisognerebbe citare in quest’ambito anche Ennio Morlotti e Mattia Moreni.
Ci sarebbe un lungo discorso da fare sulle differenze e i contrasti tra pittura “informale” e pittura “astratta”, che non coincidono affatto. Si pensi per esempio che uno dei filoni più importanti dell’arte contemporanea è quella definita “polimaterica” e che ha le sue scaturigini nel futurismo di Balla e Boccioni, per arrivare ai giorni nostri. L’”informale” è un momento di passaggio di questo tragitto, quello materico, che non nega programmaticamente la figurazione ma la reinventa e la reinterpreta in senso alchimistico e demiurgico. Quello che conta per i pittori informali è soprattutto è la resa della morbida materia plastica.
Con Burri diventa protagonista la stessa tela
Alberto Burri (1915-1995) nei tardi anni ’40 scelse di usare nelle sue opere dei sacchi, cucendo brandelli di juta e rendendo la tela – precedentemente impiegata solo come supporto per la pittura – protagonista dell’opera. Verso il 1957 introdusse il fuoco, con cui bruciava degli strati di materiali plastici stesi sul quadro. Ne risultano opere altamente drammatiche. Questo anche grazie ai colori rosso e nero che ricoprono le movimentate superfici, ma il cui equilibrio formale è garantito da una composizione armonica e basata su una “divina proporzione”.
I cretti – La materia assume un ruolo primario anche nella serie dei Cretti, bianchi o neri. Ovvero vaste, a volte vastissime superfici screpolate, ottenute utilizzando un mix chiamato “acrovinilico” che, seccandosi e restringendosi, crea una ragnatela di fessure che Burri riusciva a controllare nella fase di asciugatura. Proprio questa tecnica diede all’artista l’ispirazione per progettare un’opera monumentale a Gibellina (TP), una delle città devastate dal terremoto del 1968, rivestendo il centro raso al suolo con un candido sudario di cemento.
Rientra nel campo più ampio e articolato dell’Informale anche la cosiddetta Arte materica, sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Dobbiamo premettere che in qualunque epoca della storia dell’arte, ogni artista ha sempre valutato con attenzione l’uso di una tecnica e la scelta di un determinato materiale: tuttavia, tecnica e materiale non sono mai stati considerati essenziali per la valutazione estetica di un’opera d’arte. Soltanto nel XX secolo, la materia è divenuta la ragione principale, se non proprio la ragione unica, di un dipinto o di una scultura, tanto da giustificare, nel secondo dopoguerra, l’adozione dell’aggettivo “materico” per indicare ogni opera che privilegia proprio l’importanza conferita alla materia con cui è realizzata.
Dal secondo dopoguerra, gli artisti fecero ricorso, e sempre più frequentemente, a nuovi materiali (laminati plastici, cortecce, legni bruciati, tele di sacco, stracci, reti metalliche, lamiere, corde, stoffe da tappezzeria, lenzuoli cuciti), spingendosi a impastare segature o sabbie quarzifere con colla vinilica, smalti e vernici. Tale scelta non fu più legata a una funzione provocatoria o scandalistica e neppure fu caricata di significati simbolici: l’uso di materiali comuni espresse, piuttosto, la voglia di indagare tutte le possibilità comunicative della materia, presentandola per quella che è, lasciando aperta ogni possibile interpretazione.
Le scabre superfici di Antoni Tàpies. La spiritualità nella materia
Antoni Tàpies non amava le etichette né essere catalogato e affermava con orgoglio di non aver mai firmato un manifesto per nessun movimento. E se era universalmente noto come uno dei più significativi esponenti dell’informale, il suo percorso, complesso e articolato, si è sempre svolto all’insegna di una grande autonomia, della sperimentazione e dell’intuizione individuale. Un itinerario artistico mai disgiunto dall’impegno umano e civile – che lo pose in contrasto con il regime franchista – e da una riflessione e una ricerca personale che imprimono un’impronta quasi ‘etica’ alla sua opera. Autodidatta, l’artista catalano conobbe Picasso e Mirò, fu tra i fondatori del gruppo Dau al set di stampo neo-dada e surrealista nel 1948, e compì negli anni Cinquanta e Sessanta una maturazione verso il materico, modulata poi dall’influenza delle filosofe orientali e scandita da esposizioni e riconoscimenti prestigiosi.
I grandi quadri di questo artista sono ottenuti con l’uso di calcina mescolata a gesso, argilla e sabbia. Essi presentano superfici grumose e scabre, talvolta intersecate da crepe profonde, incavi, spaccature, che li rendono simili a muri scrostati o a veri e propri paesaggi contemplati dall’alto. Le sue composizioni inglobano oggetti reali, vestiti, impronte del corpo, non vogliono raccontare o rappresentare la realtà ma si offrono come comunicazione diretta della realtà stessa, con un linguaggio denso e primordiale, non mediato ma fatto di segni-base.
Cemento, tele, sabbia, terra, corde, distribuiti in partiture dello spazio enfatizzate da pennellate potenti, riescono a convogliare con la forza evocativa che sgorga dalla loro fisicità la sofferenza, la solitudine, la tensione emotiva: «quando crediamo di potere, di punto in bianco, lavorare su di una determinata idea, ci accorgiamo che anche l’opera comanda, perché ha le sue leggi – interne ed esterne – di sviluppo. Si ribella e ci impone le sue condizioni come i personaggi di Pirandello. Come ovunque vi sia vita, si svolge un dialogo tra l’autore e la materia della sua opera. All’inizio lo scopo non è sempre chiaro: il cammino si forma sotto i passi».
Nel 1966 inizia la sua raccolta di scritti su La practica de l’art.
I grandi quadri di questo artista sono ottenuti con l’uso di calcina mescolata a gesso, argilla e sabbia. Essi presentano superfici grumose e scabre, talvolta intersecate da crepe profonde, incavi, spaccature, che li rendono simili a muri scrostati o a veri e propri paesaggi contemplati dall’alto. Con la sua arte, Tàpies non volle imitare la realtà fenomenica ma la riprodusse idealmente sulla tela, usando materiali che si trovano in natura e ricorrendo a suggestioni fortemente “tattili” di rugosità e di porosità. Egli dimostrò che la natura può ispirare gli artisti attraverso i suoi stessi materiali, senza costringerli a competere con essa illustrando mimeticamente le sue apparenze più esteriori.
L’eredità del concettuale
L’eredità del concettuale, la cui principale influenza si identifica nel permanere di un atteggiamento critico capace di rimettere in discussione le sue stesse premesse, ha continuato a dimostrarsi determinante anche dopo il 1980, e può essere individuata in molte delle declinazioni attuali del video, della performance, della Land Art, dell’Arte povera, della Body Art, della Narrative Art, dell’arte pubblica e relazionale.
L’arte propriamente materica fa parte di questa eredità, anche se con sue caratteristiche proprie.
E’ curioso notare che gli artisti che fanno maggiormente appello al lavoro sulla materia, in realtà sottendono tutt’altro. Che cosa può essere questo “tutt’altro”? La luce interiore (immateriale), come sostenevano i filosofi medievali? La “trasformazione della materia”, in base alle teorie degli alchimisti? O lo spirito, di cui vi è ampia testimonianza nelle filosofie e nei filosofi di Occidente e d’Oriente?
Dal XIX secolo in poi l’Occidente si configura come la civiltà della materia e della tecnologia. Ma mentre la pubblicità tende a mascherarne gli aspetti più duri e anti-umanistici, gli artisti provocatoriamente la amplificano, le conferiscono uno spessore inconsueto, la fanno diventare “problema”: si pensi alla bruciatura della plastica di un Burri.
Abstract
L’autore si propone di affrontare il rapporto tra materia e pittura nell’ambito dell’arte novecentesca. Il problema della materia in arte coincide con la stessa storia tecnica dell’arte. L’attenzione a questo aspetto, però, è stato per secoli nascosto nei laboratori e nei trattati di pittura; la superficie del quadro doveva mantenere il suo aspetto di illusione tridimensionale su una superficie bidimensionale.
Nel Novecento gli artisti superano questo tabù, per rappresentare sul piano dell’espressione la stessa tridimensionalità. Fino alla realizzazione di opere poli-materiche. Dirà Enrico Prampolini: “L’arte polimaterica non è una tecnica ma – come la pittura e la scultura – un mezzo di espressione artistica…” ( Enrico Prampolini, “Arte Polimaterica”, Roma 1944). Questi materiali vengono composti ed assemblati sul supporto assieme alla pittura. Decade la rigida differenziazione tra pittura e scultura, in una ricerca di sintesi che, con largo anticipo sui tempi, Prampolini identifica anche come totale integrazione tra arte polimaterica ed architettura, della quale la prima è “una continuità organica“.
In questo contributo si parte dal polimaterismo per arrivare all’informale materico, centrato in particolare sull’opera di Jackson Pollock e Burri e all’”art brut” (Dubuffet). Non si potrebbe spiegare nemmeno quella che è stata chiamata “Arte povera” senza questo allargamento semiotico dello sguardo. L’attenzione al significante si fa così ravvicinato e sperimentale da trasformare lo stesso codice pittorico.
E’ curioso notare che gli artisti che fanno maggiormente appello al lavoro sulla materia, in realtà sottendono tutt’altro. Che cosa può essere questo “tutt’altro”? La luce interiore (immateriale), come sostenevano i filosofi medievali? La “trasformazione della materia”, in base alle teorie degli alchimisti? O lo spirito, di cui vi è ampia testimonianza nelle filosofie e nei filosofi di Occidente e d’Oriente?
Dal XIX secolo in poi l’Occidente si configura come la civiltà della materia e della tecnologia. Ma mentre la pubblicità tende a mascherarne gli aspetti più duri e anti-umanistici, gli artisti provocatoriamente la amplificano, le conferiscono uno spessore inconsueto, la fanno diventare “problema”: si pensi alla bruciatura della plastica di un Burri.
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